Stemmi degli stati italiani

 

L’uso degli emblemi da parte degli Stati è di origine antichissima e si ricollega addirittura con le origini stesse dell’araldica. pare accertato infatti, che fin dai secoli XII e XIII le terre feudali si fregiassero di propri particolari simboli e che questi venissero poi assunti e portati come propri dalle persone fisiche che ne venivano in possesso per conquista o investitura. Più tardi le insegne araldiche divennero ereditarie ed i principi a dare ai loro stati il proprio stemma di famiglia. Una traccia eloquente dell’origine "territoriale" degli stemmi rimase però nei cosiddetti "quarti di dominio" o di "pretensione" inseriti nelle armi delle case regnanti come segno del loro potere (o delle loro pretese) sui vari territori.

Tutti gli Stati, sia Monarchie sia Repubbliche, possiedono oggi stemmi, speso legati alle vicende storiche che hanno portato alla loro costituzione. Siffatti emblemi vengono usati nelle più diverse circostanze ogni volta che sia opportuno o necessario qualificare qualche cosa come pertinente allo Stato. (Basta pensare a tutti i documenti intestati dello Stato, ai bolli e sigilli che vi sono apposti, oppure alle intestazioni dei vari enti o corpi dello Stato).

In Italia, stato nazionale di recente formazione, è facile imbattersi addirittura in una "stratificazione" di simboli che spesso coesistono a poca distanza l’uno dall’altro. Ciò è dovuto al fatto che, in poco più di un secolo, si è passati, attraverso un processo di progressiva unificazione, da una decina di piccoli stati locali al Regno d’Italia e poi, da questo, con un cambiamento di forma istituzionale, alla Repubblica Italiana.

Repubblica Italiana

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Una recente prova dell’utilità e, addirittura della necessità di un simbolo ufficiale dello Stato è rappresentata dal fatto che in Italia, caduta la Monarchia, la questione del nuovo emblema o stemma da adottare venne subito posta all’attenzione dell’Assemblea Costituente, che nominò un’apposita commissione incaricata di esaminare i bozzetti presentati e di scegliere quello che ritenesse il migliore. Questa commissione formata da 11 deputati in rappresentanza di tutte le forze politiche presenti, esaminò i 197 bozzetti giunti, e fu prescelto quello del pittore Paolo Paschetto (noto per essere stato anche l’autore dei disegni di alcuni francobolli emessi in quel periodo); tale scelta fu poi approvata dall’Assemblea Costituente nella seduta del 31 gennaio successivo.

Il Decreto Legislativo sulla "Foggia ed uso dell’Emblema dello Stato", promulgato dal Presidente Enrico De Nicola e datato 5 maggio 1948, fu pubblicato nel Supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n.122 del 28 maggio 1948.

L’articolo 1° del Decreto descrive esattamente le caratteristiche di tale simbolo. " L’Emblema dello Stato, approvato dall’Assemblea Costituente con deliberazione del 21 gennaio 1948, è composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata tra due rami di ulivo e di quercia, legati da un nastro rosso, con la scritta di bianco: Repubblica Italiana".

Ai simboli usati per comporre questo emblema viene dato un significato allegorico: la stella sta a significare la buona sorte, la fiducia nella Provvidenza; il ramoscello di ulivo la Concordia, la Pace, la Prosperità e quello di quercia la forza; la ruota dentata il lavoro ed il Progresso.

Forse ispirata dal desiderio di rendere evidente anche in questo campo una rottura con il passato, l’Assemblea Costituente diede all’Italia un simbolo un po’ particolare e molto diverso da quelli usati dalla maggior parte degli Stati europei.

Si tratta, infatti, non di un vero e proprio stemma, nel senso tradizionale del termine, ma di un emblema di gusto moderno che ne fa a tutti gli effetti le veci (e ciò appare evidente anche dal testo del citato Decreto in cui si parla sempre e solo di "emblema" e mai di stemma).

Regno d’Italia

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Il regno d’Italia fu ufficialmente costituito nel suo nucleo principale nel marzo 1861, quando, in seguito alla seconda guerra d’indipendenza e alla successiva spedizione di Garibaldi, furono unificati, sotto il governo costituzionale di Vittorio Emanuele II di Savoia, Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia, tutti i territori dell’ex Regno delle Due Sicilie, oltre alle Marche e all’Umbria, strappate allo Stato pontificio.

Il Regno accrebbe successivamente nel 1866 con la conquista del Veneto, nel 1870 con Roma e tutto il Lazio, nel 1918 con il Trentino, il Friuli e la Venezia Giulia, e nel 1921con l’Istria, Fiume, e Zara. Vittorio Emanuele II regnò fino al 1878 e gli successero Umberto I (1878-1900) , Vittorio Emanuele III (1900-1946) ed Umberto II, salito al trono il 9 maggio 1946. Umberto II regnò fino al 13 giugno 1946, quando abbandonò l’Italia in seguito all’Assunzione del potere da parte del Presidente del Consiglio che aveva anticipato l’ufficiale proclamazione dei dati del referendum istituzionale svoltosi il 2 giugno precedente con risultato favorevole alla repubblica. (Per la repubblica voti 12.717.923; per la monarchia dei Savoia voti 10.719.284; schede bianche, nulle o contestate 1.509.735. In totale vi furono 24.946.942 votanti su 28.005.449 elettori iscritti nelle liste elettorali; questi sono i dati comunicati ufficialmente dalla Suprema Corte di Cassazione il 18 giugno successivo).

dal 1° gennaio 1948 la XIII disposizione transitoria della costituzione repubblicana obbliga a vivere in esilio gli "… ex Re di Casa Savoia…", le loro consorti ed i loro discendenti maschi, i quali "… non possono ricoprire uffici pubblici nè cariche elettive…".

Abbandonata l’antica e complessa arma di Casa Savoia, descritta trattando del Regno di Sardegna, il Regno d’Italia ebbe come emblema la semplice croce bianca in campo rosso che figurava già dalle guerre del Risorgimento sulle bandiere delle truppe sabaude, e che sulle bandiere rimase fino al 1946.

la più completa e ufficiale descrizione dello stemma del Regno d’Italia risale alla prima metà del XX secolo ed è sancita da un apposito Decreto Reale che ne fissa e descrive esattamente la forma. A questo proposito il Regio Decreto 11 aprile 1929 n.504 stabilì infatti che " il grande stemma dello Stato è formato dallo scudo di Savoia, di rosso alla croce d’argento, sormontato da un elmo reale d’oro, completamente aperto, damascato, foderato di rosso e posto in maestà, ornato di un cercine e di svolazzi d’oro e di azzurro, cimato con la Corona di ferro". Lo scudo ha per sostegni due fasci littori insegne dell’Ordine Supremo della SS. Annunziata, degli ordini Reali dei S.S. Maurizio e Lazzaro, Militare di Savoja, della Corona d’Italia e del merito civile di Savoia. Il tutto sotto un padiglione di porpora foderato di ermellino e sormontato dalla Corona reale di Savoia. (caduto il fascismo il 25 luglio 1943, anche lo stemma del Regno, in cui erano stati inseriti i fasci littori, fu modificato. Il nuovo stemma senza fasci, entrato in uso nei mesi seguenti, scomparve con la caduta della monarchia).

Regno di Sardegna

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Il Regno di Sardegna era il risultato di una secolare politica dei Savoia che avevano visto il proprio futuro in un espansione dei propri domini verso la pianura del Po e l’Italia in generale.

I successori di Umberto Biancamano, il primo personaggio della famiglia di cui siano noti alcuni dati precisi (morì nel 1048), trovatisi in possesso fin dal secolo XI di alcuni importanti valichi montani, furono coinvolti per tale motivo in un vortice di guerre che durò secoli e sulla cui scia tentarono di ottenere i massimi vantaggi. Stretti, infatti, da una parte dalla sempre più potente monarchia francese e limitati a nord dalle bellicose popolazioni svizzere, i conti di Savoia furono ben presto indotti a fare una scelta che li portò, per necessità, a tendere verso lo sbocco delle valli del Piemonte e verso la grande e fertile pianura padana.

Forti fin dal secolo XIII della dignità di "Vicario perpetuo dell’Impero", i Savoia, dopo aver sostenuto lunghe lotte con altri piccoli stati feudali e con i liberi comuni del Piemonte, raggiunsero nel 1416 il titolo di Duca che li collocò in una posizione di grande rilievo in Italia e sancì anche formalmente la loro considerevole potenza.

Seguì presto, però, n periodo di grave crisi dovuto al fatto che, in realtà, il ducato era per certi aspetti molto arretrato e disorganizzato nei confronti di altri stati e che, oltre a ciò, fu coinvolto in guerre che portarono alla devastazione del suo territorio ed a parziali occupazioni da parte delle truppe francesi. Solo con la pace di Cateau Cambrésis e con l’opera restauratrice di Emanuele Filiberto si ha una netta ripresa: la capitale viene portata da Chambéry a Torino, l’amministrazione viene riformata e italianizzata, l’esercito potenziato e portato a diventare un importantissimo cardine di tutto lo Stato.

Dal matrimonio tra Ludovico II e Carlotta di Lusignano, figlia ed erede di Giano II, re di Cipro, Gerusalemme ed Armenia, derivarono le pretese dei Savoia a quei troni di cui lo stesso Ludovico cinse la corona nel 1458. Nel 1689 i duchi di Savoia, in seguito ad un trattato con l’Impero e la Spagna, ottennero il riconoscimento del cosiddetto "trattamento regio" ed il diritto di usare il titolo di "altezza reale" e di fregiarsi della relativa corona. Ad un vero ed effettivo rango di re i Savoia giunsero, però, solo nel 1713 quando Vittorio Amedeo II ottenne il titolo di Re di Sicilia, isola che venne poi scambiata con la Sardegna nel 1720. In questo nuovo assetto politico che fa seguito alla pace di Utrecht, la casa Savoia assume un ruolo di eminenza sulle altre dinastie locali italiane. Nuove annessioni si hanno nel 1738, quando, in cambio dell’aiuto offerto alla Francia durante la guerra di successione polacca, Carlo Emanuele III ottiene con la pace di Vienna i territori di Novara, Tortona e le Langhe.

A questo punto il processo di espansione si arrestò per alcuni decenni fino alla Restaurazione (1815) da cui lo Stato Sabaudo uscì notevolmente ingrandito grazie all’annessione del territorio della scomparsa Repubblica di Genova che gli offrì, tra l’altro, un largo sbocco sul mare.

Nel 1831 sale al trono Carlo Alberto ed il Regno di Sardegna con l’avvento al potere di un sovrano in fama di "liberale" e disposto a battersi in nome del principio dell’unità politica degli italiani, viene ad assumere il ruolo di guida di tutto il movimento liberale ed unitario italiano. La dinastia di Savoia sfrutta così a proprio favore una occasione eccezionalmente favorevole per portare agli estremi confini possibili la propria politica espansionistica.

Alla vigilia della guerra contro l’Impero d’Austria il Regno di Sardegna comprendeva in Italia tutto il Piemonte fino al Ticino, la Valle d’Aosta, la Liguria e la Sardegna, ed oltre lo spartiacque alpino la Savoia e la città di Nizza col suo territorio, con circa 5 milioni di abitanti.

Il grande stemma usato dai Principi di Casa Savoia prima dell’unità d’Italia è estremamente complesso ed è costituito in gran parte da un insieme di stemmi di territori e città di cui la dinastia si era arricchita nel corso dei secoli e di “quarti” di derivazione e di parentela.

L’arma è inquartata. Il primo gran quarto (di pretensione) controinquartato: nel 1° d’argento alla croce potenziata d’oro accantonata da quattro crocette dello stesso (per il Regno di Gerusalemme), nel 2° fasciato d’argento e d’azzurro di otto pezzi, al leone di rosso lampassato e coronato d’oro attraversante (Lusingano – Regno di Cipro); nel 3° d’oro al leone di rosso armato e coronato d’argento (Regno d’Armenia), nel 4° d’argento al leone rosso armato e coronato d’oro, lampassato di azzurro, con la coda biforcuta (Lussemburgo).

Il secondo gran quarto partito: nel 1° di porpora al cavallo inalberato e rivolto d’argento (Westfalia); nel 2° fasciato d’oro e di nero di 8 pezzi, al crancelino di verde posto in banda sul tutto (Sassonia).

Il terzo gran quarto paretito: nel 1° d’argento seminato di plinti di nero al leone dello stesso (Chiablese); nel 2° di nero al leone d’argento armato e lampassato di rosso (Aosta).

Il quarto gran quarto semi troncato-partito: nel 1° di rosso, alla croce d’argento attraversata in capo da un labello d’azzurro (Piemonte); nel 2° cinque punti d’oro equipollenti a quattro di azzurro (Ginevra); nel 3° d’argento, al capo di rosso (Monferrato); innestato in punta fra il terzo ed il quarto gran quarto d’argento all’aquila col volo abbassato e coronato di nero (Nizza); sul tutto uno scudetto d’oro all’aquila spiegata di nero, coronata dello stesso (di Savoia antica) caricata nel cuore di uno scudetto ovale di rosso alla croce d’argento (di Savoia moderna). Nel punto d’onore sul tutto d’argento alla croce di rosso accantonata da quattro teste di moro attorcigliate d’argento e poste di profilo (Sardegna).

Regno Lombardo – Veneto

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Dal Congresso di Vienna uscì nel 1815 un nuovo assetto della situazione politica europea ed, in particolare, italiana. Quasi tutti gli antichi sovrani vennero restaurati e molti dei precedenti Stati ampliati a spese di altri.

In Italia, caduto Napoleone, erano rimaste prive di governo le antiche repubbliche aristocratiche i cui territori andarono divisi fra i vincitori. Il Congresso, dominato dal principe di Metternich, volle considerare come definitivamente spenta l’antichissima e gloriosa Repubblica di Venezia di cui l’Austria si era già impadronita una prima volta con il trattato di Campoformio (17-10-1797) e le sue terre, che si estendevano da Bergamo all’Istria, vennero unite a quelle del ducato di Milano, già possesso austriaco dal 1707. In tal modo fu costituito il cosiddetto regno Lombardo Veneto, con una superficie di 46.991 Kmq. ed una popolazione che nel 1848 contava circa 6 milioni e mezzo di abitanti. Il Regno si divideva in un “governo milanese”, con 9 province, ed in un “governo veneto”, con 8 province, divisi fra loro dal fiume Mincio. Data la sua importanza il Regno Lombardo – Veneto era retto da un viceré che dal 1818 al 1848 fu l’Arciduca Ranieri, una cui figlia, Maria Adelaide, sposò nel 1842 Vittorio Emanuele II di Savoia, il futuro re dell’Italia unita. Il nuovo Stato venne a riunire insieme la parte maggiore dei domini diretti dell’Impero Austriaco in Italia e fu proprio il più esposto ad una serie di attacchi sia politici sia militari, che dal 1848 in poi portarono, dopo una serie di campagne di guerra, alla loro quasi totale scomparsa nel corso del secolo XIX.

Dal 2 dicembre 1848 regnava sull’Impero degli Asburgo, e quindi anche sul Lombardo Veneto, il diciottenne Francesco Giuseppe I trovatosi subito a dover affrontare moti liberali interni ed attacchi armati all’estero. Uscito vittorioso dalla campagna del 1848-49 contro il Regno di Sardegna, Francesco Giuseppe ebbe una tregua di dieci anni fin a quando non fu costretto ad entrare in guerra dall’alleanza franco-piemontese stretta per l’instancabile opera del conte Cavour. In seguito alla decisiva sconfitta subita nella battaglia di Solferino e San Martino (24 giungo 1859) ad opera delle truppe collegate di napoleone III, imperatore dei Francesi, e di Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, l’imperatore d’Austria fu costretto a cedere col trattato di Villafranca (11-7-1859) la Lombardia a Napoleone che a sua volta la trasmise a Vittorio Emanuele. In base a questo trattato l’Austria manteneva il possesso del Veneto e conservava in Lombardia l’importante fortezza di Mantova ed il suo territorio.

Nel 1866, in seguito ad una nuova guerra contro il Regno d’Italia e la Prussica, l’Austria, pur vittoriosa a Custoza e a Lissa, dovette trattare una pace che permettesse di liberarsi sul fronte italiano per richiamare truppe verso il nord, dove le armate prussiane, vincitrici a Sadowa, puntavano minacciose verso Vienna. Raggiunto un armistizio, le truppe italiane passarono il Po ed entrarono nel Veneto l’8 luglio, raggiungendo una dopo l’altra le principali città. Nel frattempo, dall’armistizio si giunse ad una pace: il 3 ottobre 1866 il Veneto veniva ceduto a Napoleone III che a sua volta lo cedeva con un rapido scambio di consegne svoltosi a Venezia, all’Italia. Il 9 ottobre il Veneto entrava ufficialmente a far parte del Regno d’Italia.

Col trattato di Vienna venivano lasciati liberi di unirsi al Regno d’Italia circa due milioni e mezzo di Veneti che, chiamati ad esprimere ufficialmente la loro volontà in un plebiscito che si svolse tra il 22 ed il 23 ottobre, diedero 647.246 voti a favore dell’annessione e 69 contrari.

Fra le varie clausole del trattato era simbolicamente assai importante la restituzione al Re d’Italia dell’antichissima “corona ferrea” con cui erano stati incoronati i re Longobardi ed altri sovrani d’Italia fra cui Napoleone I. Da allora questa corona figurò sull’arma personale del Re d’Italia e del grande stemma dello Stato.

Nel Regno Lombardo – Veneto furono in uso vari tipi di stemmi ufficiali, tutti abbastanza complessi. Fra di essi è particolarmente chiaro e significativo quello costituito dall’aquila bicipite nera, coronata su entrambe le teste e sormontata a sua volta dalla grande corona imperiale.

L’aquila è caricata nel petto di uno scudo su cui figurano uniti insieme il leone di S. Marco e la biscia dei Visconti a simboleggiare le terre che costituivano il Regno. Nel 1° e 4° quarto lo scudo è di argento, alla biscia d’azzurro ondeggiante in palo, coronata d’oro e divorante un fanciullo nudo uscente di rosso (Visconti); nel 2° e 3° di azzurro al leone con la testa in maestà, d’oro, alato e diademato dello stesso, tenente fra le zampe anteriori un libro aperto d’oro con la scrittura “PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS” di nero (Repubblica di Venezia). Sopra il tutto uno scudetto partito. Nel 1° di rosso, al leone coronato d’oro (Asburgo); nel 2° d’oro, alla banda di rosso, caricata di tre aquilotti d’argento posti nel verso della pezza (Lorena), al palo di rosso, caricato di una fascia d’argento, posto sulla partizione (la fascia d’argento in campo rosso è l’antichissimo e tradizionale emblema dell’Austria, ancora oggi usato, come proprio stemma, dalla Repubblica federale Austriaca. Pare che la sua origine risalga all’anno 1191 quando il Duca Leopoldo, alla battaglia di Tolemaide, alzò come insegna la sua tunica intrisa di sangue tranne che nella fascia protetta dal cinturone della spada). Lo stemma è accollato dal Toson d’Oro.

Fra gli altri tipi di stemmi usati nel Lombardo – Veneto merita ancora di essere ricordato quello che figurò sui francobolli di tale Stato dal 1850 al 1857 ed è ben noto ai filatelici.

In uno scudo d’oro, sormontato dalla corona imperiale, campeggiava l’aquila bicipite nera caricata in cuore di uno scudetto con le armi degli Asburgo e dei Lorena divise in palo con i colori dell’Austria.

Ducato di Parma

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Il Ducato di Parma scorse nel 1545 quando il Pontefice Paolo III (Alessandro Farnese, 1534-1549) lo costituì in uno stato autonomo parte delle conquiste territoriali fatte in Emilia dalla Chiesa in seguito agli eventi bellici e politici del 1529. ne fu investito, col titolo di duca, il nipote dello stesso Pontefice, Pier Luigi Farnese, già duca di Castro, il quale diede vita ad una dinastia che regnò a Parma fino al 1731, anno in cui morì senza discendenti maschi l’ultimo sovrano.

Restava in vita solo una femmina, Elisabetta, nipote dell’ultimo duca, la quale nel frattempo, per il matrimonio con Filippo V di Borbone, era diventata regina di Spagna. Elisabetta,m considerandosi unica legittima erede dei domini dei Farnese, riuscì a far ottenere l’investitura del ducato al figlio primogenito Don Carlos (29 dicembre 1731) ma, in realtà, lo stato passò di mano in mano fino alla pace di Aquisgrana (1748) quando, fra le clausole alla sistemazione politica dell’Italia, fu riconosciuto il definitivo possesso del ducato aFilippo di Borbomne, fratello di Don Carlos, divenuto intanto Re di Napoli. (da questi due fratelli, figli del Re di Spagna e di un’italiana, derivarono i due rami distinti dei Borboni di Parma e dei Borboni di Napoli.)

Il piccolo ducato, poco popolato e quasi disarmato, se brillò come centro di cultura e di progresso economico e sociale per impulso dei duchi Filippo e Ferdinando e del ministro Du Tillot, non fu però mai in grado di svolgere una propria politica autonoma.

Nel 17662, infatti, anche la casa ducale di Parma entrò nel “patto di famiglia” stretto fra i vari regnanti dei Borboni e a lungo subì l’influenza francese e spagnola cui solo il Congresso di Vienna si sostituì quella austriaca, potenza alla quale gli ultimi duchi si appoggiarono contro le tendenze unitarie delle popolazioni soggette. Sopravvissuto alla “tempesta” del 1848, che fece tremare anche quel trono, nel 1859 il ducato di Parma e Piacenza contava circa 500.000 abitanti diffusi su una superficie di 6.296 Kmq. Oltre alla capitale e al suo territorio facevano parte dello Stato le province di Piacenza , Borgo S. Donnino, Val di Taro, Lunigiana, corrispondenti alle attuali province di Parma e Piacenza, eccetto la Lunigiana, antico dominio dei Malaspina, che oggi è compresa nella provincia di Massa Carrara.

Il duca Carlo III, salito al trono il 25 agosto 1849, era stato assassinato il 27 marzo 1854 lasciando la corona al figlio Roberto I, posto sotto la reggenza della madre Luisa Maria di Berry (figlia del duca di Berry e sorella del conte di Chambord, pretendente al trono di Francia). Assunto il potere, la duchessa scelse una via di “disimpegno” politico dall’Austria e diede vita ad un governo vagamente “liberale” che diede al ducato alcuni anni tranquilli. Il 1° maggio 1859, in seguito agli eventi della 2° guerra di indipendenza, la duchessa abbandonava Parma riparando a Mantova con i figli ed il governo veniva assunto da una Giunta Provvisoria. L’esercito ducale (circa 5.000 uomini), si dimostrava però fedele alla dinastia e rovesciava in un primo tempo il Governo Provvisorio imponendo il rientro nella capitale della famiglia regnante, per cui il 4 maggio la duchessa riprendeva il potere e lo manteneva ancora per un mese, abbandonando poi pacificamente e definitivamente Parma il 9 giungo dopo la battaglia di Magenta, dopo aver sciolto le truppe dal giuramento di fedeltà alla Corona. Il 14 dello stesso mese entrarono in Parma le truppe sarde e dal 14 al 21 agosto si svolse un plebiscito; l’11 dicembre 1859 l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo votava la decadenza della dinastia borbonica e l’annessione al costituendo Regno d’Italia. Il 1° gennaio 1860 le terre dell’ex ducato di Parma e Piacenza entrarono a far parte delle R. Province dell’Emilia poste sotto l’autorità del Governatore Luigi Farini. Passarono ancora poco più di due mesi ed anche questi territori entrarono a far parte del Regno d’Italia.

Dei Borboni esiste ancora discendenza derivante dalla numerosa prole dell’ultimo duca regnante che, da due matrimoni, ebbe ben 20 figli tra maschi e femmine. Fra questa è Zita, vedova di Carlo I d’Asburgo, ultimo imperatore d’Austria, e madre dell’arciduca Otto, attuale pretendente al trono austriaco. Fratello di Zita è il principe Francesco Saverio, erede nel 1936 dei diritti al trono di Spagna del ramo “carlista”: suo figlio Ugo Carlos, duca di Madrid, in esilio in Francia, è l’attuale pretendente carlista in opposizione al Re Juan Carlos I.

Anche lo stemma del Ducato di Parma è ricco di “quarti” e di riferimenti storici ai domini e alla derivazione della dinastia regnante. Fra i principali quarti contenuti nell’arma, figurano al primo posto quello dei Farnese, da cui i Borboni di Parma discendono in linea femminile, che è d’oro a sei gigli d’azzurro. Di fianco stanno quello dei Gonzaga (d’argento alla croce patente di rosso accantonata da quattro aquile spiegate ed affrontate di nero) e quello dei Medici (d’oro a cinque palle di rosso poste in cinta, sormontate da una più grande di azzurro caricata di tre gigli d’oro). In punta è il quarto dell’Impero d’Oriente (di rosso alla croce d’oro accantonata da quattro lettere B maiuscole dello stesso. Le lettere stanno ad indicare le iniziali delle parole …. (greche): Re dei Re regnati sui Re).

Sopra il tutto sta uno scudetto rotondo, inquartato: nel 1° e 4° di rosso al castello d’oro, aperto e finestrato del campo (Regno di Pastiglia); nel 2° e 3° d’argento al leone di rosso (Regno di Léon). Sopra questo un altro scudetto d’azzurro a tre gigli di oro, alla bordatura di rosso (Borboni di Spagna e Napoli, tutti derivati dai Borboni di Francia di cui portano l’arma brisata dalla bordatura).

Ducato di Modena

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Il Ducato di Modena e Reggio, esteso su un territorio di 6031 Kmq. e con una popolazione di poco più di 600.000 abitanti, era tutto quanto restava dei secolari domini degli Estensi dopo che, nel 1598, il duca Cesare, appena salito al trono aveva dovuto lasciare Ferrara per Modena. Cesare era figlio di un figlio naturale del duca Alfonso I ed era stato costretto a cedere alla Santa Sede il ducato di Ferrara, terre per le quali i Papi avevano concesso agli Estensi il Vicariato perpetuo, riservandolo però alla sola discendenza legittima. Clemente VII, allora regnante, non volle in alcun modo prendere in considerazione la possibilità di derogare a questa rigorosa disposizione (anche se vi era chi sosteneva la legittimità della nascita del padre di Cesare) ed acconsentì solo a lasciargli, quando lo vide disposto a cedere senza combattere, il titolo del tutto privo di contenuto di duca di Ferrara.

La discendenza maschile di questa linea, derivante da Cesare, si estinse nel 1803 col dica Ercole III. Nel 1859 il ducato di Modena si trovava sotto la sovranità della Casa d’Austria – Este, originata dal matrimonio tra Maria Beatrice d’Este, ultima erede della sua stirpe, e Ferdinando Carlo Arciduca d’Austria. Il nipote di Maria Beatrice, il duca Francesco V, salito al trono il 22 gennaio 1846, regnò a Modena fino all’11 giugno 1859, giorno in cui, in seguito all’avanzata dell’esercito franco-piemontese e a moti popolari, abbandonò la città istituendo una Reggenza che durò solo due giorni, sostituita poi da una Giunta Municipale. Il 20 giugno Luigi Farini fu nominato Dittatore delle Province Modenesi ed il 20 agosto una assemblea popolare votò la decadenza della casa d’Austria – Este.

Non tutto il popolo modenese aderì, però, con entusiasmo alla “liberazione” e ne è prova il fatto che gran parte del piccolo esercito ducale (contava 4.500 uomini) seguì nell’esilio Francesco V, scortandolo per oltre quatto anni nei suoi spostamenti e confidando sempre in un ritorno vittorioso. La presenza di queste truppe nei suoi stati rappresentava, però, l’Austria, un permanente motivo di attrito con il neonato Regno d’Italia, per cui Francesco V fu costretto a sciogliere il suo esercito: il 24 settembre 1863 a Cartigliano Veneto finiva, di diritto e di fatto, il quasi millenario dominio in Italia della Casa d’Este. Di lì a qualche anno con la morte del Duca, privo di discendenza maschile, si estingueva anche la Casa d’Austria – Este; i suoi diritti su Modena passavano così al ramo degli Asburgo regnanti in Austria ed il titolo di Duca di Modena e Reggio appartiene oggi all’Arciduca Otto, pretendente al trono imperiale.

Lo stemma del Ducato di Modena, costituito dall’arma originaria di Casa d’Este unita ad altri simboli che vi si unirono nel corso dei secoli, è inquartato: nel 1° e 4° d’oro all’aquila bicipite di nero (Sacro Romano Impero); nel 2° e 3° di azzurro a tre gigli d’oro (Regno di Francia) con la bordatura inchiavata di rosso e d’oro; sul tutto un palo di rosso col gonfalone di Santa Romana Chiesa d’oro; sul tutto del tutto uno scudetto d’azzurro all’aquila col volo abbassato d’argento, rostrata, membrata e coronata d’oro (che è l’antica arma degli Estensi).

I gigli di Francia racchiusi da un bordo dentato metà di rosso e metà d’oro usato come brisura, furono concessi agli Estensi, come simbolo di particolare favore, dal Re Carlo VII con diploma 1° gennaio 1431 e furono originariamente posti nel 1° e 4° quarto. Di lì a pochi anni, però, il Duca Borso ottenne anche la concessione dell’aquila imperiale (18 maggio 1452) e la pose al posto dei gigli, spostandoli nel 2° e 3° quarto. Nel 1471, poi, l’arma di Casa d’Este si arricchì ulteriormente per la concessione che il Pontefice Sisto IV fece al Duca Ercole I delle insegne della Chiesa (le chiavi sormontate dal Triregno), poste dapprima nel capo e poi in un palo attraversante sull’inquartato. Così, avendo dovuto far posto via via a tante importanti concessioni, l’aquila estense si ritirò nel centro dello scudo, venendo posta sopra tutte le "armi di concessione", e tale posizione mantenne fino all’estinzione della Dinastia.

Granducato di Toscana

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Il Granducato di Toscana, (semplice ducato fino al 1569), esisteva dal 1532, quando con l’appoggio di Papa Clemente VII (Giulio de’ Medici) e l’aiuto militare dell’Imperatore Carlo V, fu insediato al potere a Firenze il duca Alessandro I, figlio naturale di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, e di una popolana. (Molti insinuarono si trattasse in realtà di un figlio dello stesso Pontefice il quale, d’altra parte, ricevette gli Ordini Sacri solo dopo la sua assunzione al Soglio, e di una serva o, addirittura di una schiava negra). Dopo un periodo di grande splendore e prosperità sotto il governo dei granduchi Cosimo I e Ferdinando I, lo stato si avviò verso una lenta decadenza nella seconda metà del secolo CVII, mentre anche la dinastia regnante si avviava ad un’estinzione su cui tutta l’Europa si apprestava a speculare in quanto venivano a crearsi gravi problemi di equilibrio nel sistema politico italiano.

Spentosi nel 1737 Gian Gastone de’ Medici, il granduca di cui tute le potenze europee si erano occupate solo per trovargli (od imporgli) figli adottivi ed eredi, fu deciso, nel quadro della sistemazione politica dell’Europa con spartizione di sfere d’influenza tra Asburgo e Borboni, che la Toscana fosse assegnata a Francesco Stefano, duca di Lorena e di Bar. (Francesco era intimamente legato alla Casa d’Austria per essere marito di Maria Teresa che diventerà poi imperatrice d’Austria dal 1740; in cambio la Lorena fu assegnata a Stanislao Leszczynski, già re di Polonia, e suocero di Luigi XV Re di Francia).

Dopo il periodo napoleonico, in cui il Granducato fu trasformato in "Regno d’Etruria" e posto sotto il governo dei Borboni di Parma, tutto ritornò come prima e gli Asburgo – Lorena riottenne il trono dando vita ad una nuova serie di riforme che fecero della Toscana negli anni compresi fra il Congresso di Vienna e la metà del secolo uno degli stati più prosperi e liberi della penisola in cui viveva nel 1859 una popolazione di circa 1.800.000 abitanti. Il territorio di 21.715 Kmq., corrispondenti pressappoco all’estensione dell’attuale Toscana, era difeso da un poco più che simbolico esercito di circa 13.000 uomini.

Il granduca Leopoldo II d’Asburgo – Lorena, nato il 3 ottobre 1797, salì al trono il 18 giugno 1824 continuando in un primo tempo la tradizione dell’assolutismo illuminato di Pietro Leopoldo, ma le riforme furono nell’insieme poco incisive ed i fermenti politici liberali e filo-unitari spensero certo gli entusiasmi del Granduca, particolarmente dopo che nel 1848 fu cacciato da Firenze da una sommossa popolare e potè rientrarvi solo con l’appoggio delle armi austriache. Dopo altri undici anni in cui si accentuò un progressivo distacco della popolazione da quell’attaccamento alla Dinastia che in altri tempi era stato piuttosto vivo, in seguito a nuovi tumulti seguiti all’inizio della seconda guerra di indipendenza, Leopoldo II abbandonò per la seconda volta Firenze il 27 aprile 1859 rifugiandosi in territorio austriaco. Un governo provvisorio nominato lo stesso giorno si pose sotto la protezione di Vittorio Emanuele II che inviò a reggere lo stato un Commissario di Governo.

Il 1° agosto 1859 fu eletto Presidente del Consiglio dei Ministri del Governo Provvisorio il barone Bettino Ricasoli ed il 7 dello stesso mese fu eletta un’assemblea popolare che dichiarò decaduta la dinastia degli Asburgo – Lorena e chiese l’annessione della Toscana al Piemonte, cui avevano chiesto di unirsi anche la Lombardia e gli stati dell’Emilia. Nel frattempo il Granduca aveva tentato, senza avere esito positivo, di salvare il trono alla dinastia abdicando il 21 luglio in favore del figlio Ferdindado IV il quale, di fatto, non regnò però mai in Toscana e non rientrò più in possesso dei suoi stati.

L’annessione al Piemonte richiesta dall’Assemblea fu infatti confermata da un plebiscito, svoltosi l’11 marzo 1860, che diede una schiacciante maggioranza a favore di tale soluzione.

la discendenza dei granduchi di Toscana è tuttora fiorente e forma un ben distinto ramo della Casa imperiale di Asburgo – Lorena. Attuale capo della famiglia è S.A.I. e R. Goffredo, Granduca di Toscana, Arciduca d’Austria, nipote di Ferdinando IV, il già ricordato sovrano dichiarato decaduto dall’Assemblea Toscana. Il Granduca Goffredo è titolare del Gran Magistero degli Ordini Dinastici di S. Stefano di Toscana e di S. Giuseppe, appartenenti alla Casa d’Asburgo – Lorena – Toscana.

Recentemente, nel quadro di un riavvicinamento storico-culturale tra casa sovrana ed antichi sudditi, il granduca Goffredo, riconfermando la continuità dei suoi ordini Dinastici, ha nominato un Maggiordomo della sua Casa con lo specifico compito del mantenimento dei contatti con le popolazioni della Toscana.

L’arma del Granducato di Toscana sotto il dominio degli Asburgo – Lorena è piuttosto complessa e comprende numerosi "quarti" di pretensione e di alleanza. I quarti di pretensione, fra cui quelli di Napoli (Angiò), Gerusalemme, Aragona e Gueldria appartengono all’arma originaria della casa ducale di Lorena, che se ne fregiava in quanto tale dinastia rivendicava il possesso di questi stati. Gran parte di queste pretese derivavano dal matrimonio di Isabella di Lorena con Renato I d’Angiò "il buono" Re di Napoli (n. 1409 morto 1480). Sopra il tutto, a fianco dell’arma originaria di Lorena, è il quarto dei Medici, cui i Lorena successero nel dominio della Toscana.

lo scudo è partito di tre e spaccato di uno ed i quarti sono nominati da destra a sinistra e dall’alto in basso: nel 1° d’argento a tre fasce di rosso; nel 2° e 5° d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello di tre pendenti di roso; nel 3° d’argento alla croce potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso (Regno di Gerusalemme); nel 4à d’oro a quattro pali di rosso (Regno d’Aragona), nel 6° d’azzurro al leone rivolto e coronato d’oro; nel 7° d’oro al leone di nero coronato del campo; nell’8° d’azzurro seminato di crocette d’oro, a de barbi addossati dello stesso (Ducato di Bar). Sopra il tutto partito: nel 1° di oro alla banda di rosso, caricata di tre alterioni d’argento posti nel senso della stessa (Lorena); nel 2° d’oro a cinque palle di rosso poste in cinta, sormontate da una più grande di azzurro caricata di tre gigli d’oro (Medici). La palla azzurra con i gigli d’oro fu concessa a Pietro de’ Medici da Luigi XI Re di Francia nel 1465 e da allora fu sempre portata in aggiunta all’arma originaria di famiglia. Allo scudo sono accollate le insegne dell’ordine del Toson d’Oro e dell’Ordine di S. Stefano di Toscana, l’antico e benemerito Ordine Militare istituito nel 1561 da Cosimo I con lo stesso scopo di assicurare la sicurezza della navigazione nel Tirreno e di combattere contro Turchi e pirati barbareschi.

Stato Pontificio

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Lo Stato Pontificio, espressione politica concreta del potere temporale dei Pontefici Romani, trae origine dalla donazione fatta dal re Longobardo Liutprando "ai beatissimi Pietro e Paolo" della città di Sutri nel Lazio (728). Queste terre furono il primo nucleo del cosiddetto "patrimonio di S. Pietro" che si ampliò poi progressivamente, accresciuto da concessioni territoriali di vari sovrani, fino ad assumere già tra i secoli VIII e IX dimensioni e confini rimasti poi sostanzialmente invariati fino al secolo XIX.

All’inizio delle guerre risorgimentali italiane, lo Stato Pontificio comprendeva tutta l’Italia centrale a sud della Toscana e dei ducati emiliani, confinando lungo la linea del Po con il Regno Lombardo – Veneto, mentre a sud il confine era quello, ormai definito da secoli, con il Regno di Napoli.

In seguito alla seconda guerra di indipendenza (1859) andarono perdute le Romagne (corrispondenti alle attuali province di Bologna – Ferrara – Ravenna – Forlì) e nel 1860 furono invase dalle truppe italiane e poi annesse al Regno d’Italia le Marche e l’Umbria, oltre al territorio di Benevento e Pontecorvo, che erano incorporai nel Regno delle Due Sicilie.

Al momento della presa di Roma il territorio soggetto alla sovranità pontificia si era ristretto a circa 11.700 Kmq., suddivisi nelle province di Roma, Civitavecchia, Frosinone, Velletri e Viterbo. Ultimo Pontefice a regnare su quanto restava del secolare dominio politico della Chiesa fu Pio IX (Giovanni Maria dei conti Mastai – Ferretti, nato a Senigallia il 13 maggio 1792), eletto al Soglio Pontificio il 16 giugno 1846. La sua elezione, per la fama di liberale di cui godeva, ed alcuni dei suoi primi atti di governo furono proprio una delle cause che contribuirono ad infiammare ulteriormente gli animi ed a provocare gli eventi del 1848. Ai noti fatti di quell’anno seguì un irrigidimento del Pontefice su posizioni di assoluta intransigenza di fronte al problema di Roma capitale d’Italia ed il ritorno ad una politica di pura e semplice "conservazione" di uno stato ormai anacronistico dove governo ed amministrazione centrali erano monopolio del clero e l’idea di poter conciliare i sentimenti patriottici unitari con la salvaguardia dell’indipendenza della Chiesa Cattolica e del suo Vicario erano condannati come preposizione eretica.

Pio IX fu spogliato del potere temporale il 20 settembre 1870 in seguito all’occupazione di Roma da parte delle truppe italiane e morì poi il 7 febbraio 1878 nei palazzi vaticani da dove non era mai più uscito in segno di protesta per l’occupazione dei suoi stati e di rifiuto della "legge delle guarentigie" con cui il Regno d’Italia, unilateralmente, aveva pensato di poter garantire l’autonomia del papa, pur privato dei suoi domini temporali.

Lo stemma dello Stato Pontificio è costituito dalle insegne proprie del Papato, cioè la Tiara e le Chiavi, unite all’arma personale del Pontefice regnante che, da un punto di vista politico, era nient’altro che il Sovrano di una monarchia elettiva. (Come lo è anche oggi in quanto Capo dello Stato della Città del Vaticano). le chiavi, una d’argento e l’altra d’oro, emblema della giurisdizione dei Papi, possono essere poste sopra lo scudo e sotto la Tiara, disposte in croce di S. Andrea oppure accollate, sempre in croce, dietro lo scudo. Pare che il primo pontefice ad accollare le chiavi al proprio scudo sia stato Bonifacio VIII; allo stesso Papa la tradizione fa risalire l’atuale forma della Tiara o Triregno, la corona che i Pontefici pongono sopra il proprio stemma.

La Tiara è una specie di elmo d’argento, alta e rotonda, sormontata da un globo crociato d’oro, con tre corone d’oro sovrapposte a breve distanza l’una dall’altra. Anticamente la Tiara aveva un semplice cerchio d’oro alla base e, per molto tempo, fu poi soltanto doppia, come simbolo della doppia potenza temporale e spirituale del Pontefice. Questa Tiara dalla duplice corona, la cui origine risale forse a Carlo Magno, era in pieno uso al tempo di Gregorio VII, e tale restò fino al secolo XIV.

Molte e diverse sono le spiegazioni del significato delle attuali tre corone: secondo alcuni esse ricorderebbero le tre corone date ai Pontefici in tempi diversi da Costantino, Clodoveo e Carlo Magno, per altri rappresenterebbero il potere del Papa sulla triplice Chiesa: militante, purgante e trionfante, oppure i tre Regni: Inferno, Purgatotorio e Paradiso; oppure, con lieve modificazione, la potenza della Chiesa che, come quella di Cristo suo fondatore, si estende oltre la vita presente e, quindi, sulle cose terrestri, infernali e celesti. (A proposito di quest’ultima interpretazione si narra che il principe Ottone di Bismarck, il grande Cancelliere tedesco, in occasione del giubileo sacerdotale di Leone XIII, avendo domandato ad un alto prelato romano il significato del Triregno e avendone ricevuto in risposta quest’ultima spiegazione, abbia osservato sorridendo: "Per le cose celesti e le infernali non ho nulla da dire, ma per le terrene faccio le mie riserve").

Nel 1870 lo stemma dello Stato Pontificio era costituito dalle insegne del Papato unite a quelle del regnante Pio IX il quale, nato da nobile famiglia aveva conservato il proprio stemma gentilizio che è: Inquartato: nel 1° e 4° di azzurro al leone coronato d’oro, con la zampa sinistra posteriore posata sopra un globo dello stesso (Mastai); nel 2° e 3° d’argento a due bande di rosso (Ferretti).

Ancora oggi i Pontefici sovrani, come si è detto, dello Stato della Città del Vaticano oltre che capi della Chiesa Cattolica, uniscono ai simboli del pontificato la loro propria arma e tale stemma viene usato in tutte le raffigurazioni ufficiali.

Regno delle Due Sicilie

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Il Regno delle Due Sicilie (così ufficialmente chiamato dal 1816 riportando in auge un antichissimo nome risale ai Re d’Aragona) era uno dei più antichi stati italiani, essendosi costituito nella sua integrità fin dal secolo XII sotto la Casa di Svevia e così rimasto, pur attraverso una serie di passaggi da un dominio all’altro, fino all’unificazione politica di tutta la penisola.

Dal 1734 regnava a Napoli un ramo dei Borboni di Spagna, staccatisi a loro volta dalla casa Reale di Francia. Carlo di Borbone (VII come Re di Napoli), figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, già duca di Parma, conquistò il regno togliendo agli Austriaci a seguito di una campagna connessa con la guerra di successine polacca e tale conquista gli fu riconosciuta poi dal trattato di Vienna (1738). A Napoli, Carlo diede inizio ad una Dinastia che divenne ben presto napoletana a tutti gli effetti (gli stessi sovrani erano soliti esprimersi correttamente in puro dialetto partenopeo) e trovò nelle classi più umili della popolazione il principale sostegno del suo trono. Contrariamente a quanto spesso affermato, il Regno delle Due Sicilie era, infatti, uno Stato del tutto indipendente e retto da sovrani italiani: non si deve dimenticare l’offerta fatta a Ferdinando II della corona di Re d’Italia da parte del congresso di liberali tenutosi a Bologna nel 1833. I Borboni, però, non avevano ambizioni di conquista ed erano troppo rispettosi del potere temporale del Papa per lasciarsi invogliare da tali proposte: l’offerta fu lasciata cadere per non ledere i diritti altrui, come disse Ferdinando sul letto di morte, e le tendenze politiche unitarie e monarchiche puntarono allora sui Savoia.

Quando Garibaldi, il 6 maggio 1860, salpava da Quarto col tacito appoggio di Cavour e la benevola connivenza di Vittorio Emanuele II, la situazione era dunque un po’ diversa da quella tanto propagandata da pochi esuli e poi fatta propria da una visione agiografica degli eventi del Risorgimento. Garibaldi andava, in realtà, alla conquista, per conto del Re di Sardegna, del pi vasto e del più popolato tra gli stati italiani anteriori alla guerra del 1859 contro l’Austria.

Il regno delle Due Sicilie comprendeva, infatti, tutta l’Italia a sud dello Stato Pontificio: la Campania, l’Abruzzo, la Puglia, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia, con circa nove milioni di abitanti. Così sistemato da un punto di vista geografico il Regno era difeso, come soleva dire Ferdinando II, per tre lati dall’acqua salata e per il quarto dall’acqua santa, tutte difese che poco gli servirono al momento del bisogno. In realtà esistevano anche, almeno sulla carta, una forte flotta ed un esercito di circa centomila uomini, discretamente armati ed addestrati, con l’unica pecca di essere comandati da troppi generali vecchi, pavidi e pronti a farsi comprare dall’oro piemontese. Per queste cause sul soldato napoletano pesano ancora ingiustamente luoghi comuni ormai triti: ogni volta che i comandanti si dimostrano combattivi e capaci, la truppa si batté con coraggio e valore scrivendo vere pagine di gloria sul Volturno, a Caserta, a Gaeta …

Da un punto di vista tecnico ed economico il Regno vantava alcuni troppo poco noti primati: dal 1839 era in funzione la prima linea ferroviaria costruita nella penisola, e nel 1818 era stata varata la prima nave a vapore italiana. Fiorenti industrie tessili e siderurgiche prosperavano difese da un regime di stretto protezionismo e nelle casse dello Stato erano racchiusi depositi per un ingente numero di milioni in lire – oro che furono poi preda dei conquistatori. Dalle Accademie napoletane uscivano i più preparati ufficiali d’artiglieria e del genio di tutta Italia. Indubbiamente a tutto ciò faceva riscontro una situazione politica poco “liberale” ed una generale arretratezza sociale e culturale. Da molto tempo, però, si è dileguata la favola dei fratelli piemontesi venuti a liberare il Sud dal giogo tirannico dei Borboni. Non di “liberazione” si trattò, infatti, ma di pura e semplice annessione, con immediata estensione ai nuovi territori delle leggi piemontesi, della coscrizione obbligatoria, di tasse completamente ignote al Sud. Prova di questa realtà è il fatto che ancora nel 1865 su 59 prefetti esistenti in Italia ben 43 erano piemontesi ed il resto emiliani e toscani.

Il Re Ferdinando II (“Re Bomba” come veniva chiamato spregiativamente dai liberali dopo il bombardamento di Palermo), uomo molto criticato ma intelligente e dotato di indubbie capacità di governo, di buon senso e di spirito pratico, morì a soli 49 anni il 22 maggio 1859, lasciando il trono in uno dei più burrascosi momenti storici dell’Italia ad un giovane timido ed impreparato a regnare. Francesco II, salito al trono lo stesso giorno della morte del padre, dovette abbandonare Napoli il 6 settembre 1860in seguito all’avanzata delle truppe garibaldine. Dopo la grande battaglia del Volturno (2 ottobre) in cui per poco i napoletani non riuscirono a battere il nemico, il Re dovette riparare nella fortezza di Gaeta in cui si rinchiuse con circa 20.000 uomini. Qui, dopo aver sostenuto un assedio di quattro mesi, dovette alla fine capitolare ed il 14 febbraio 1861 si imbarcava alla volta di Roma dove restò, fino al 1870, ospite del Pontefice con quanto restava della sua Corte.

Secondo l’uso di quei tempi, anche a Napoli ed in Sicilia ci si preoccupò di indire appena possibile dei plebisciti che potessero, col loro voto, dare valore alla “liberazione” effettuata da Garibaldi.

Nei territori continentali del Regno la votazione diede 1.032.064 “si” e 10.313 “no”; in Sicilia, regione per la quale si tenne un conteggio distinto, vi furono 432.053 “si” e 667 “no”. Mentre in questo modo si legittimavano i desideri unitari di quanti volevano l’unione del Regno al resto dell’Italia (però vi furono solo un milione e mezzo di votanti su nove milioni di abitanti) già era scoppiata la guerriglia promossa da quanti avversavano la nuova sistemazione politica. Ciò mentre, dopo la capitolazione di Gaeta, truppe regolari borboniche resistevano ancora nella cittadella di Messina fino al 13 marzo, e la fortezza di Civitella del Tronto ammainava per ultima la bianca bandiera dei Borboni il 20 dello stesso mese. Dopo questa data, per parecchi anni ancora, gruppi di soldati sbandati, di volontari cattolici giunti da tutta Europa, di contadini renitenti alla leva ed anche di autentici briganti, sostenuti da aiuti in denaro provenienti daal sovrano spodestato impegnarono più di centomila uomini dell’esercito del Regno d’Italia.

In esilio a Roma fino al 1870, Francesco II morì ad Arco, in Trentino, il 27 dicembre 1894. Privo di discendenza, trasmise i diritti al trono al fratello Alfonso, conte di Caserta, il cui pronipote S.A.R. il principe Ferdinando Maria, duca di Calabria, è l’attuale pretendente al trono e Gran Maestro degli Ordini Dinastici di Casa Borbone Due Sicilie. Fra questi è l’importantissimo Sovrano Militare Ordine Costantiniano di S. Giorgio che anche oggi gode dell’ufficiale riconoscimento dello Stato Italiano quale “… legittimo Ordine Dinastico della Casa Reale di Borbone delle Due Sicilie …” (D. P. R. 20 luglio 1963).

Il Re delle Due Sicilie si fregiava anche dei titoli di Re di Gerusalemme, duca di Parma, Piacenza e Castro, gran principe ereditario di Toscana: tutti questi attribuiti figurano portati fino all’ultimo giorno di regno anche da Francesco II che così si intitolava negli atti ufficiali. L’arma completa di questa linea dei Borboni è particolarmente complessa e ricca di “quarti” di pretensione fra cui quelli allusivi ai sopra citati titoli. La variante illustrata di uso non ufficiale e molto più semplice, consiste in uno scudo inquartato: nel 1° d’azzurro seminato gigli d’oro con la bordura composta di argento e di rosso (Borgogna); nel 2° inquartato in croce di S. Andrea (o decussato): al 1° e 4° d’oro a quattro pali di rosso (Aragona), al 2° e 3° d’argento all’aquila spiegata e coronata di nero (Svevia); nel 3° d’argento alla croce potenziata d’oro accantonata da quattro crocette dello stesso (Gerusalemme); nel 4° d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello di quattro pendenti di rosso (d’Angiò). Sopra il tutto d’azzurro a tre gigli d’oro (di Francia) con la bordura di rosso. Nell’arma completa del Regno (in uso anche sulle bandiere) figurano, fra l’altro, i già noti quarti dei Medici, d’Austria, di Pastiglia e di Léon, comuni anche al ramo di Parma, ed il quarto di Portogallo che è d’argento a cinque scudetti di azzurro, in croce, caricati ciascuno di cinque bisanti del campo, posti in croce di S. Andrea, alla bordatura di rosso caricata di sette torri d’oro.

All’arma sono accollate le insegne degli Ordini del Toson d’Oro, di S. Gennaro, di S. Giorgio della riunione, di Carlo III, dello Spirito Santo di Francia e quelle del già citato ed ancora fiorente Ordine Costantiniano di S. Giorgio.

FINE

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